Incontro con i fondatori: ALBERTO GUARISO

Alberto Guariso nel 1984 abitava a Sesto San Giovanni e insieme alla sua futura moglie – che ha inventato il nome “Detto Fatto” -, hanno partecipato alla costituzione della cooperativa. Alberto ha rimosso di essere stato il primo presidente della cooperativa: essendo oggi avvocato, se ripensa alle imprese “ardite” degli inizi, rischia di spaventarsi. In questi ultimi 20 anni, lo abbiamo seguito nelle sue riflessioni su lavoro e diritti contro ogni discriminazione. Lui ci ha invece sostenuto con l’amicizia che non è mai venuta meno.

Come è nata l’idea?

C’era don Virginio, eravamo a casa nostra e a mia moglie era venuta l’idea del nome…

La Detto Fatto è nata da persone che avevano una professionalità operaia e che avevano una disponibilità a insegnare e quindi l’incontro tra generazioni è stata la cosa più bella perché da un lato era un’esperienza nuova. Era difficile mettere insieme giovani privi di qualsiasi esperienza lavorativa e anziani che venivano dall’esperienza della fabbrica, dove ci sono apprendimento di conoscenze e anche di manualità e di capacità, abitudine a lavorare insieme. Me lo ricordo come una cosa bella perché si vedeva la volontà e la disponibilità di queste persone più anziane ma anche la fatica, abituati a 35 anni di fabbrica, a lavorare con giovani un poco “smandrappati”.

Si vedeva la diversità di mondi…

Quello che ricordo dei primi anni era soprattutto questo rapporto fra vecchi e giovani e il fatto di avere creato un’esperienza centrata sul lavoro, che tutti si rendevano conto essere un tema centrale – come anche adesso – che però il mondo del volontariato era più orientato alla disabilità, all’assistenza. Ma mancava proprio l’idea di offrire occasioni di lavoro.

Vari settori di attività: è stata una scelta?

Era una necessità perché era talmente difficile trovare pieghe dove inserirsi. Avevamo anche la necessità di impiegare le professionalità che di volta in volta si rendevano disponibili. Un poco le attività dipendevano dai clienti che ci capitavano.

Una delle prime cose fatte era la sistemazione di un capannone vicino alla parrocchia per fare assemblaggio. Sembrava che l’assemblaggio potesse essere uno dei settori dove poter svolgere le nostre attività: sia perché essendo lavori semplici potevano essere adatti a persone fragili, sia perché sembrava potesse essere un settore con possibilità di sviluppo.

L’assemblaggio subito ha visto tanta concorrenza, perché tutte le cooperative facevano questi servizi, per cui non era facile trovare commesse che permettessero di fare assemblaggi di pezzi semplici. Chiedevano o cose complicate per cui non avevamo professionalità. Avevamo necessità di uno spazio, e io e anche altri giovani senza alcuna manualità, abbiamo cominciato a sistemare questo capannone, sotto la guida dei pensionati esperti.

Da qui subito abbiamo cercato di offrire alle famiglie servizi di idraulica, elettricità.

Abbiamo portato in giro i volantini e anche questo si era diffuso moltissimo; allora era una buona idea. Ma lì ci vuole una professionalità elevata che all’epoca non avevamo.

Per quanto riguarda i servizi esterni siamo andati subito verso le pulizie che erano più semplici.

Abbiamo fatto anche servizi di imbiancatura, e lì siamo riusciti a lavorare abbastanza bene…

Quale il momento più significativo?

Nei primi anni c’è stata anche l’attività sul carcere. Si è cominciato con i legami con gli ex terroristi che potevano uscire da S. Vittore per lavorare. Questo ci aveva offerto l’occasione di riflettere su quel tempo storico e il reinserimento sociale attraverso i nostri progetti di lavoro. 

Facemmo una mostra a S. Vittore con cose prodotte da loro e promossa da Detto Fatto.

Ci sono stati momenti difficili intorno a questi temi: alla mostra c’era anche Montanelli che era stato gambizzato e lì aveva incontrato chi gli aveva sparato; grazie alla nostra iniziativa avevano avuto la possibilità di incontrarsi…c’era stata parecchia pubblicità. Sono stati momenti molto intensi e molto importanti. Don Virginio è stato il fautore di questo percorso molto impegnativo che raggiunse il suo obiettivo: permettere a qualcuno di loro di rimanere a lavorare con noi per molti anni.

Le difficoltà di ieri e di oggi…

All’inizio la difficoltà più grossa era quella di creare speranze e attese che duravano poco!

Avevamo sempre l’ansia di perdere le commesse, dopo averci lavorato tanto anche solo per renderla possibile… una vita molto molto precaria…

Come facevi a dire a un ragazzo disabile che aveva un lavoro ma non si sapeva per quanto?

I settori di lavoro a bassa contenuto professionale purtroppo continuano ad essere maggioritari e assorbono più forza lavoro di altri e soprattutto la forza lavoro più debole. Da un lato è un’opportunità per chi non fa investimenti di capitali e di formazione. Questi settori possono essere un’opportunità da sfruttare ma non devono diventare occasioni di ghettizzazione.

Bisogna ridare dignità a questi lavori che ci saranno sempre: non devono essere i residui dell’organizzazione produttiva. Bisogna dare salari giusti, e non competere con chi lavora sfruttando.

Oggi cosa significa essere cooperativa sociale?

Ridare dignità a questi lavori poveri mettendo in discussione tutta la catena produttiva, vuol dire ripensare a tutto: le cooperative possono dare un grande contributo alla riflessione ridando dignità a questi servizi e farli diventare un pezzo di produzione che la gente riconosce come importante, che deve essere pagato correttamente e dove non deve esserci ghettizzazione e discriminazione.

Non dobbiamo dire: siamo una cooperativa e possiamo fare solo servizi facili. La solidità della Detto Fatto dimostra che si può fare molto e quindi bisogna avere il coraggio di esplorare settori più innovativi, più complicati che però possono reggere anche molto più a lungo e con meno fatica.